L’Ottocento a Parigi cattedrali contro Les Halles

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    L’Ottocento a Parigi cattedrali
    contro Les Halles
    Due mostre ripropongono
    la sfida tra le architetture
    accademiche di Labrouste
    e quelle moderne di Baltard


    Il mercato de Les Halles a Parigi in una stampa pubblicata su L’Illustration nel 1857

    Carlo Olmo
    parigi

    Chi, reduce dalle asettiche sale della Très Grand Bibliothèque, non ha sognato di ritrovarsi, anche solo per un istante, nelle magiche sale della Bibliothéque Nationale che affacciavano su Rue de Rivoli? Chi disperso tra tanti mercati parigini, non si è immaginato, nelle vesti di Jean Gabin, girare tra i banchi delle vecchie Halles? Dietro due tra i più divergenti immaginari della Parigi ottocentesca - uno colto raffinato, esclusivo; l’altro avventuroso, popolare, pieno di odori - ci sono due architetti, le cui storie sono raccontate in due mostre da poco aperte a Parigi.

    Quasi coetanei, ammessi allo stesso ferreo percorso formativo - Ecole des Beaux-Arts, soggiorno italiano, ritorno a Parigi con incarichi pubblici crescenti -, le loro storie raccontano due Parigi diverse, anche dalla stanca litania haussmaniana. Famosi, almeno nelle storie dell’architettura, per l’innovazione dei materiali usati nelle loro costruzioni (ferro, ghisa, vetro), Henri Labrouste e Victor Baltard ci pongono davanti due Parigi distanti. Quella di chi, Labrouste, nell’Ecole rimane e anzi vi ritorna come professore di atelier, in una circolarità delle élite che è caratteristica chiave di quel milieu parigino, e chi invece, Baltard, si butta in una professione attenta a dar forma alle nuove architettura della capitale, di una città moderna che sembra escludere le industrie.

    Labrouste non esce dal più colto accademismo, maturando, già in Italia, un rigore anche formale, che è, però, unito, a una professione di architecte publique, per il quale le questioni stilistiche costituiscono una questione di secondaria importanza. Se si vuole, una ben strana accademia, almeno alla luce di come oggi noi la immaginiamo. Baltard invece utilizza le occasioni che gli fornisce una società moderna che sta diventando una società di massa, per sperimentare nuove tipologie - di una, il grande mercato coperto, formalizzerà una forma tanto fortunata da generare copie un po’ ovunque in Europa e negli Stati Uniti - ma, non senza sorpresa per il visitatore, è anche impegnato a «restaurare» alcune delle chiese-monumento di Parigi, da Saint-Germaine de Près a Saint-Eustache. Un Baltard non distante da Viollet-le-Duc, che ci dice quanto le letture per materiali delle architetture possano essere pericolose.

    Due Parigi che, in pieno Ottocento - i due architetti moriranno a un anno di distanza, nel 1874 e nel 1875 - quasi non si parlano: la Parigi delle élite e dei luoghi quasi sacri della loro formazione laica e quella del mercato e dello scambio e dei luoghi molto meno laici delle sue chiese «cattedrali». Due Parigi, oggi, al di là delle chiese-monumento, quasi interamente scomparse: rimane la splendida Bibliothèque di Sainte Geneviève, vicina al Panthéon.

    Le due mostre - quella su Labrouste alla Cité de l’Architecture et du Patrimoine durerà sino al 7 gennaio, quella di Victor Baltard al Musée d’Orsay chiuderà il 14 gennaio - presentano anche due modi diversi di narrare personaggi e periodi.

    Quella su Labrouste, curata in primis da Barry Bergdoll, curatore della sezione di architettura del MoMa, è una mostra costruita su un’interpretazione storiografica forte, cui corrisponde una severa scelta di materiali e un allestimento sin troppo evocativo. Una scelta che ha due punti molto delicati, la natura quasi avanguardistica attribuita forse con un eccesso di formalismo ai rilievi pompeiani di Labrouste, e una sala finale, sulla recezione della sua opera, tanto interessante quanto, almeno in parte, segnata da analogie, sino ad architetture di anni recenti, troppo diverse dal rigore metodologico perseguito nella mostra.

    Quella su Baltard, curata da Alice Thomine-Berrada, crea una scenografia, più che offrire un’interpretazione, presenta una vita d’artista e il suo contesto storico, non offre chiavi di lettura. Anche in questo caso l’allestimento non è felicissimo nella scelta di costruire alcune stanze troppo separate da un percorso di visita e nella stanza finale, dove la recezione dell’opera di Baltard diventa quella delle Halles, con testi e fonti molto eterogenei, scordando, se si può dire, la grande tematica del restauro dei monumenti, che tanta influenza avrà sino a oggi.

    Certo, per chi avrà la fortuna di essere a Parigi da oggi a dopo Natale, queste due mostre consentono di entrare non solo in alcuni degli immaginari ancor oggi più presenti della città, che è poi quella di Hugo, Balzac, Zola e di tanti, troppi pittori per poterli qui ricordare, ma aprono tracce che forse la curiosità successiva potrà sviluppare. Ad esempio, un’organizzazione meritocratica e indubbiamente élitaria - pur se gestita con principi di libertà che oggi le università italiane e europee si sognano - quale l’Ecole des Beaux-Arts come poteva formare architetti dediti quasi esclusivamente al bene pubblico? Come quella società, insieme industriale, consumista, innovatrice, non cadeva nei miti che su quella stessa società si sono poi creati, aprendo a tematiche quali i progetti di grandi infrastrutture o quelli del restauro?

    Le mostre che lasciano tracce e dubbi sono certamente quelle più utili e, anche per la stagione in cui queste due vengono a cadere, sono due occasioni che inducono a pensare e forse a leggere, anche dopo che si è usciti da questi due grandi musei.


    Fonte. www.lastampa.it/


     
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